(II) La trappola del postmoderno

Dio è morto, l’autore pure, e anch’io non mi sento molto bene

Alessandra Zengo
8 min readMar 14, 2018

— Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità.
— La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta

Nel ’900, dopo il secondo conflitto mondiale e il funerale del modernismo, nel mondo delle lettere avviene un cambiamento: cresce e si sviluppa un curioso interesse per l’autore.

Ecco che, all’improvviso, diventiamo consapevoli del testo come finzione narrativa, come strumento duttile nelle mani di qualcuno che non conosciamo (ancora). È come svegliarsi da un sogno, che ha come effetto collaterale, per chi legge, almeno, la scomparsa della willing suspension of disbelief.

Non diamo più per scontato che quello che il narratore racconta sia vero e diventiamo sospettosi. Ci chiediamo chi è, cosa lo muove, perché fa quello che fa. La motivazione che spinge alla scrittura di una storia non è più banale, scontata, data.

Questo è il postmodernismo, un movimento (o momento) della storia letteraria che affronta il collasso dell’idea di Verità — lo scrittore postmoderno ha smesso di cercarla, perché sa che non esiste — e ne abbraccia le conseguenze.

Non c’è più alcuna autorità da rispettare, nel canone letterario e nella storia: gli autori, rimasti orfani, affrontano da soli la crisi del linguaggio. Si mette in discussione l’idea che tale linguaggio sia coerente, che possa comunicare qualcosa, che ci siano referenti, là fuori, a cui le parole sono legate.

Fioriscono la metafiction, l’intertestualità, i pastiches — che caratterizzano la letteratura postmoderna — e le teorie critiche (come la reader-response theory) che rinnegano il ruolo del context of production (il contesto storico nel quale l’autore ha prodotto la sua opera) e privilegiano il context of reception (il contesto nel quale l’opera è effettivamente letta). Lo scettro del potere, dunque, passa dall’autore al lettore.

In modo ufficiale, almeno “sulla carta”, questa successione al potere avviene nel 1967, con la pubblicazione dell’articolo (tradotto dal francese all’inglese) “The Death of the Author” sulla rivista americana Aspen.

L’autore che diventerà celebre per l’omicidio del Dio-Autore, un novello Nietzsche della letteratura, è Roland Barthes.

“The image of literature to be found in contemporary culture is tyrannically centered on the author, his person, his history, his tastes, his passions; criticism still consists, most of the time, in saying that Baudelaire’s work is the failure of the man Baudelaire, Van Gogh’s work his madness, Tchaikovsky’s his vice: the explanation of the work is always sought in the man who has produced it, as if, through the more or less transparent allegory of fiction, it was always finally the voice of one and the same person, the author, which delivered his confidence.”

L’autore — risultato dell’ideologia capitalista che ha riservato alla sua persona la massima importanza — è un tiranno da detronizzare, se vogliamo restituire il testo a se stesso e alle cure di chi (lo) legge.

Linguisticamente, l’autore non è niente di più dell’uomo che scrive, dice Barthes, e non, come si è pensato finora, un’entità che precede il libro.

Accettata la scomparsa (o la soppressione) del Dio-Autore, e allontanata l’idea paternalistica di una figura che “bada” al libro come se fosse un figlio, non esiste più una relazione di anteriorità tra chi scrive e ciò che viene scritto, perché il moderno scrivente nasce simultaneamente col suo testo. E ogni testo è scritto qui e ora, non c’è nessun tempo se non quello presente.

“Succeeding the Author, the writer no longer contains within himself passions, humors, sentiments, impressions, but that enormous dictionary, from which he derives a writing which can know no end or halt: life can only imitate the book, and the book itself is only a tissue of signs, a lost, infinitely remote imitation.”

Barthes opera un rovesciamento completo, ironico alla maniera postmoderna, quasi: non è più la letteratura che imita la vita, ma la vita che imita il testo. Un testo che, una volta che l’Autore ha lasciato la stanza, non ha più bisogno di essere “decifrato”. E così Barthes ci libera da un enorme fardello: non c’è più un segreto da scoprire, o un significato ultimo cui giungere.

Un romanzo che accoglie e sfida le idee di Barthes (citandolo apertamente) è The French Lieutenant’s Woman di John Fowles, pubblicato nel 1969, due anni dopo la comparsa dell’articolo incriminato.

Linda Hutcheon, in “Historiographic Metafiction. Parody and the Intertextuality of History”, lo inserisce, accanto a Il nome della rosa di Umberto Eco e Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, all’interno della historiographic metafiction, una forma narrativa meta-finzionale calata in un periodo storico specifico.

“What historiographic metafiction challenges is both any naive realist concept of representation and any equally naive textuality or formalist assertions of the total separation of art from the world.”

The French Lieutenant’s Woman opera come Hutcheon suggerisce, contro un’ingenua concezione di rappresentazione legata a un realismo “standard”: Fowles riproduce fedelmente lo stile, i dialoghi, la trama di un romanzo vittoriano, in un’imitazione degna del migliore falsario, per poi entrare nella storia e stravolgerla.

Prima come narratore (selettivamente) onnisciente e intrusivo, che commenta le scelte dei personaggi, critica la storia e i costumi della società vittoriana inglese e discute persino l’artificio narrativo che sostiene la storia; poi come personaggio, nell’atto di ribellione (o accettazione) suprema alla morte dell’Autore barthesiana.

Le convenzioni della fiction e del romanzo storico vengono sovvertite: la storia è ambientata a Lyme Regis — con alcune scene a Exeter e Londra — nel 1867, mentre il narratore scrive a un secolo di distanza. Per sua stessa ammissione, non può fingere che quella che sta raccontando non sia una ricostruzione a posteriori.

Ha una coscienza storica diversa da quella dei personaggi, e la sua rappresentazione dell’epoca vittoriana è legata a una dimensione critica e valutativa. Non c’è spazio per la finta oggettività del romanzo storico, scevro da giudizi e anacronismi, se il narratore è un narratore moderno, che ammette di esserlo.

John Fowles, oltre alla vocazione da falsario, ha una predilezione per il realismo illusionista. In The French Lieutenant’s Woman, infatti, gioca col lettore per lo spazio di dodici capitoli, i primi, facendogli credere di stare leggendo un comunissimo (o quasi) romanzo vittoriano, completo di epigrafi con citazioni di poesie, saggi, romanzi, articoli e report dell’epoca.

La svolta arriva col celebre capitolo 13, quando il narratore — o l’autore? È impossibile saperlo; Barthes almeno su questo aveva ragione — si confessa e rompe l’illusione mimetica:

“This story I am telling is all imagination. These characters I create never existed outside my own mind. If I have pretended until now to know my character’s minds and innermost thoughts, it is because I am writing in a convention universally accepted at the time of my story: that the novelist stands next to God. He may not know all, yet he tries to pretend that he does.”

The French Lieutenant’s Woman sembra accogliere la morte dell’Autore preannunciata da Barthes, ma a morire è una concezione specifica di “autore”: quello che finge di conoscere ogni particolare del suo mondo letterario e dell’interiorità dei personaggi.

Lo stesso autore di cui parlava Nabokov : “The writer is the first man to map it and to name the natural objects it contains. Those berries there are edible. That speckled creature that bolted across my path might be tamed”.

Il romanziere, con Fowles, è ancora un dio — creatore di nuovi (e coraggiosi) mondi — ma non il dio della tradizione vittoriana, omniscient and decreeing. E c’è una nuova teologia che ha come fondamento non l’autorità, ma il principio di libertà: “There is only one good definition of God: the freedom that allows other freedoms to exist”.

“Only one same reason is shared by all of us [writers]: we wish to create worlds as real as, but other that the world that is. Or was. This is why we cannot plan. We know a world is an organism, not a machine. We also know that a genuinely created world must be independent of its creator; a planned world (a world that fully reveals its planning) is a dead world. When Charles left Sarah on her cliff-edge, I ordered him to walk straight back to Lyme Regis. But he did not; he gratuitously turned and went down to the Dairy.”

Da una parte, quindi, Fowles trasfigura e decostruisce il romanzo (vittoriano), criticandone le convenzioni e le ipocrisie; dall’altra, non abbandona l’istanza realistica, ma la rende soltanto consapevole al fruitore della finzione.

Non sappiamo, però, se credere del tutto alla confessione, come Cartesio di fronte al genio maligno: il narratore denuncia la pretesa dell’onniscienza, ma fino alla fine penetra nella coscienza di Charles e degli altri (Sarah è l’eccezione); parla dell’indipendenza dell’universo narrativo dal suo creatore, ma apre al dubbio con la parentesi sul “mondo che riveli totalmente la sua progettazione”; offre al lettore due finali, ma è consapevole che non si sfugge alla tirannia dell’ultima pagina.

L’ultimo capitolo è quello che porta a compimento l’arco narrativo di Charles, che non corona il suo sogno — o incubo — d’amore, ma diventa finalmente un essere umano libero: “For he has at last found an atom of faith in himself, a true uniqueness, on which to build; has already begun, though he would still bitterly deny it, tough there are tears in his eyes to support his denial, to realize that life […] is not a symbol, is not one riddle and one failure to guess it, is not to inhabit one face alone or to be given up after one losing throw of the dice; but is to be, however inadequately, emptily, hopeless into the city’s iron heart, endured”.

Fowles è il mago di cui parla Arthur C. Danto nel saggio La trasfigurazione del banale, quello che mostra il doppio fondo della cassa, sapendo che l’illusione è altrove, e che il suo gioco di prestigio è salvo.

Questo è il secondo di una serie di tre articoli, cominciata con Il realismo come trasgressione. L’argomento è:

Come si raccontano le storie? E qual è il rapporto tra realtà, rappresentazione e chi la “rappresentazione” letteraria la scrive per davvero? Un percorso che si snoda tra realismo e postmoderno, con un esempio — “La donna del tenente francese” di John Fowles — che mostra le criticità del rapporto tra lo scrittore e i suoi personaggi. Personaggi che, in sostanza, chiedono di essere un po’ più liberi e un po’ meno conosciuti.

Sono un’editor e digital strategist freelance, e mi diverto a correggere manoscritti di ogni tipo. Dal 2009 vivo una relazione impegnativa col mondo editoriale, ma ancora non ci siamo lasciati. Se ti piace come scrivo, unisciti alla tribù dei lettori di Elementary, la mia newsletter personale. È strana, simpatica e arriva sempre nel momento giusto.

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Alessandra Zengo

I’m a red-haired editor obsessed with blue. I was born sick and sour.