(I) Il realismo come trasgressione

Da Emma Bovary a Gregor Samsa, attraverso l’ambiguità di “Cuore di tenebra”

Alessandra Zengo
6 min readMar 7, 2018

“And take upon us the mystery of things, | As if we were God’s spies.”
William Shakespeare, King Lear

A una prima, distratta occhiata — quella del “lettore comune” — il concetto di realismo non sembra così problematico, soprattutto se lo si fa risalire a una corrente specifica del XIX secolo.

Perché andare alla ricerca di una definizione, di una spiegazione, quando c’è Flaubert che, con la sua Madame Bovary (1857), lo esemplifica senza bisogno di teoria e glosse a bordo pagina?

C’è la realtà, così come viene esperita attraverso i sensi, e c’è lo scrittore che la traspone fedelmente sulla carta, in un’accumulazione compulsiva di dettagli, alcuni dei quali non fanno procedere la trama e nemmeno caratterizzano i personaggi.

Sono dettagli superflui, non funzionali, decorativi, ma che permettono al lettore di immaginarsi la storia più vividamente, di sentire la solidità della costruzione immaginativa e di credere di poterci abitare dentro con agio. È quello che Barthes chiama, un secolo dopo Flaubert, “effetto di reale” (e non perché gli piacesse).

L’autore di Lolita, Vladimir Nabokov, invece, mostra una peculiare ossessione per il superfluo. Nelle sue Lectures on Literature analizza grandi classici come Mansfield Park, la stessa Madame Bovary, The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, The Metamorphosis, Ulysses.

Si sofferma sulla collocazione spaziale di Mansfield Park, sul colore degli occhi di Emma, sul tipo di “casa desolata” di Dickens, sulla specie di insetto che è diventato Gregor Samsa (non un cockroach, ma un beetle, seppur con la stazza di un grosso cane).

Dall’analisi della novella di Franz Kafka, per esempio, emerge l’importanza simbolica del numero 3. Tre sono le sezioni che compongono l’opera, tre i familiari del protagonista, tre i “collaboratori domestici” che compaiono, tre gli inquilini, tre le lettere che padre, madre e sorella scrivono, tre le porte che si aprono sulla stanza di Gregor.

E sì, Nabokov ha persino aggiunto alcuni schizzi dell’appartamento dei Samsa e della forma dell’insetto: è molto probabile, infatti, che Gregor avesse un paio d’ali di cui non era a conoscenza. Non un’informazione così marginale, per l’interpretazione del personaggio.

I dettagli, però, possono illudere sulla pretesa oggettività del reale, che invece rimane una “faccenda molto soggettiva”.

“La realtà è una faccenda molto soggettiva. Non saprei come definirla, se non come una sorta di graduale accumulo di informazioni; e come specializzazione. Se prendiamo un giglio, per esempio, o un qualsiasi altro oggetto naturale, un giglio è più reale per un naturalista che per una persona comune. Ma è ancora più reale per un botanico. E si arriva a un grado ancora più elevato di realtà se il botanico è uno specialista di gigli. Possiamo, per così dire, avvicinarci sempre più alla realtà; ma mai a sufficienza, perché la realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque inestinguibile, irraggiungibile. Di un particolare oggetto possiamo sapere sempre di più, ma non potremo mai sapere tutto: non c’è speranza.”

Come spiega Zadie Smith in Cambiare idea, “Nabokov credeva nella farfalla in quanto tale”. La realtà c’è, è lì, ma non è raggiungibile. E lo sforzo dello scrittore, nel tentativo di coglierla con sempre maggior esattezza (le letture sempre più precise del giglio, insomma), è asintotico. E dunque destinato a non essere mai soddisfatto.

Ma perché accontentarsi del realismo, questo “rozzo compromesso dei sensi”, quando abbiamo a disposizione la realtà, l’originale?

Perché — forse banalmente — la nostra esperienza del reale è ben lontana dall’essere chiara e, come spiega Tim Parks nell’articolo “Clearing Up Ambiguity” pubblicato dal The New York Review of Books, “any literature with a mimetic vocation will have to be on one hand precise in the presentation of physical detail and on the other ambiguous in its vision of the whole”.

Dobbiamo lavorare come monaci certosini nella presentazione del mondo, dei personaggi e dei dettagli, come insegna Nabokov, ma tenere aperta l’ambiguità, la complessità, la vaghezza, quando guardiamo il mondo dall’alto, nel suo insieme. È nell’ambiguità testuale che si gioca il senso del testo: creato, rivelato e oscurato, nel medesimo momento.

Un brillante esempio di vaghezza — più spesso la nemica giurata della scrittura — è rappresentato da Heart of Darkness di Joseph Conrad, un racconto che registra, in questo caso sì nitidamente, le difficoltà del linguaggio di “raccapezzarsi” di fronte a eventi che sconfinano la portata dell’ordinario.

Marlow fatica a raccontare la sua storia, a trasmettere quello che ha provato lì, durante la traversata del fiume, verso le sponde ignote della terza stazione della compagnia olandese. “I remember it”, dice, “but I can’t explain.”

E nel momento in cui la confessione della sua incapacità raggiunge l’apice — “No, it is impossible, it is impossible to convey the life-sensation of any given epoch of one’s existence − that which makes its truth, its meaning − its subtle and penetrating essence. It is impossibile. We live, as we dream… alone…” — il luogo del racconto (la cornice narrativa con Marlow che, sopra uno yacht sul Tamigi, aspetta l’alba con alcuni compagni) si fa pitch dark, con gli uomini che riescono a malapena a vedersi l’un l’altro. E Marlow, la nostra voce narrativa, è diventato anche per loro no more than a voice.

Lo stesso Kurtz, l’emblema del mistero, dell’ambiguità, dell’uomo uscito dalla civiltà, la cui esistenza per Marlow risulta improbable, inesplicabile, and altogether bewildering, pronuncia le parole più enigmatiche del romanzo: “The horror! The horror!”.

Dopo Heart of Darkness, il realismo sembra tutt’altro che trasparente e adagiato placidamente sulle cose che vuole riprodurre. Invece di considerarsi mera copia dell’esistente, il realismo evolve: dalla metafora dello specchio — specchio auto-rivelatore, che tuttavia potrebbe condurre a esiti nefasti come per Narciso, e specchio convesso (alla cui specularità, quindi, si aggiungono altre qualità)— alla metafora del trampolino.

È un cambio di prospettiva indicato da Zola, quando scrive a Henry Céard a proposito di Germinal, da Flaubert, in una lettera a Madame Roger des Genettes, e infine ripreso da Walter Siti nella “confessione da laboratorio” che è il breve saggio Il realismo è l’impossibile.

“Noi mentiamo tutti, più o meno, ma quali sono la meccanica e l’obiettivo della nostra menzogna? Io, per quanto mi riguarda, credo ancora di mentire nel senso della verità. Soffro di ipertrofia del dettaglio vero, il salto nelle stelle mediante il trampolino dell’osservazione esatta. La verità balza con un colpo d’ala su fino al simbolo.”

La proposta di Siti sembra contro-intuitiva e contraddittoria. Il realismo è l’impossibile — e non più registrazione positivistica della realtà per come èovvero “l’anti-abitudine, il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale”. E proprio per questo è sempre neonato: ogni volta comincia daccapo, procedendo alla ricerca di una nuova rappresentazione del reale, lontana dallo stereotipo che si è già sedimentato.

Il concetto di realismo non è sempre uguale a se stesso, ma è strutturalmente transitorio e mutevole. Si stratifica nel tempo.

Ora, nel 2018, scrivere che “l’uomo frugò nella borsa”, che “c’è un caldo soffocante”, che “si rimane a bocca aperta” (ma si potrebbe redarre una bibbia di frasi del genere), non sorprende più. E la letteratura, anche e soprattutto quella realista, dev’essere una guerra contro le espressioni logore e le parole morte, come ha spiegato Martin Amis. Solo Coleridge può permettersi di scrivere, in The Rime of the Ancient Mariner, red as a rose is she. E comunque si parla del 1798, non proprio l’altro giorno.

Lo scrittore, per considerarsi davvero tale, ha bisogno di una lingua diversa, una lingua nuova, che si rinnovi costantemente.

E se per Walter Siti il realismo è quella postura che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà, quando andiamo a sondarne i luoghi più remoti e proibiti, il suo nemico — pronto a cannibalizzare anche la miglior prosa — è “l’inevitabile destino di usura a cui sono sottoposte le sue invenzioni: ogni scandalo diventa presto maniera”.

Questo è il primo di una serie di tre articoli. L’argomento è:

Come si raccontano le storie? E qual è il rapporto tra realtà, rappresentazione e chi la “rappresentazione” letteraria la scrive per davvero? Un percorso che si snoda tra realismo e postmoderno, con un esempio — “La donna del tenente francese” di John Fowles — che mostra le criticità del rapporto tra lo scrittore e i suoi personaggi. Personaggi che, in sostanza, chiedono di essere un po’ più liberi e un po’ meno conosciuti.

Sono un’editor e digital strategist freelance, e mi diverto a correggere manoscritti di ogni tipo. Dal 2009 vivo una relazione impegnativa col mondo editoriale, ma ancora non ci siamo lasciati. Se ti piace come scrivo, unisciti alla tribù dei lettori di Elementary, la mia newsletter personale. È strana, simpatica e arriva sempre nel momento giusto.

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Alessandra Zengo

I’m a red-haired editor obsessed with blue. I was born sick and sour.